Un pericoloso latitante di mafia, autore di indicibili stragi e atroci omicidi, ha trovato da ieri dimora in un carcere italiano di massima sicurezza. Dopo trenta lunghi anni il boss Matteo Messina Denaro è finalmente in mano della giustizia italiana, come è giusto e sacrosanto che sia. Togliamo dal campo ogni ambiguità. Questa è una vittoria per lo Stato, ma anche per tutti i cittadini onesti. Il fatto che una persona crudele, condannata in via definitiva a decine e decine di anni di carcere per reati commessi, sia stato assicurato alla giustizia è un bene prezioso per l’intera collettività. Come questo sia realmente avvenuto poco importa. Inutile congetturare su trame, complotti, accordi sottobanco o chissà cos’altro. Lo è semplicemente perché se anche fosse avvenuto qualcosa di diverso dalla versione ufficiale fornita ieri in conferenza stampa non lo sapremo mai, come già accaduto con la cattura di altrettanti pericolosi latitanti nel passato, anche nella nostra isola. Il dato più importante è che con l’arresto di ieri si è certificato un dato di fatto, prima o poi i debiti con la giustizia si pagano e sottrarvisi non rende chi lo fa né un eroe né tantomeno un uomo d’onore. Però va fatta una riflessione più ampia su quanto è accaduto e su come è stata accolta, specialmente dalla politica, questa cattura. Innanzitutto abbiamo saputo dai fatti ormai incontrovertibili che il boss è stato finalmente acciuffato nella sua isola, nel suo territorio, tra la sua gente. Per anni si è fantasticato che fosse scappato lontano, all’estero, persino in America. Invece è stato scovato praticamente a casa sua, e neanche sottoterra o dentro un bunker sorvegliato da decine di uomini armati. È stato arrestato mentre attendeva il suo turno per sottoporsi a cure mediche dopo aver effettuato l’accettazione davanti a una clinica frequentata ogni giorno da centinaia, forse migliaia, di persone. In quell’ospedale lo hanno visitato, operato, curato. In quel nosocomio andava da più di un anno per sottoporsi a cure regolari. Nessuno lo ha riconosciuto, mai. E appare uno stridore insopportabile oggi vedere emergere sui media anche i primi selfie a cui il boss si prestava sorridente accanto a sanitari e degenti. Nonostante fosse latitante viveva ancora tra i suoi concittadini e corregionali. Lo faceva, certo, con addosso una carta d’identità falsa e perfetta in tutto (persino con un timbro originale), ma senza porsi troppo il problema di essere riconosciuto in mezzo a quelle persone che come lui appettavano in una sala della clinica o in fila all’esterno il proprio turno per essere curati. Questo sta a significare solo una cosa, l’uomo era abbastanza sicuro di godere di complicità e di connivenze. Sono, infatti, queste e solo queste ad avergli consentito di rimanere in latitanza per oltre 3 decenni con tutta la polizia e la magistratura della Repubblica impegnata a cercarlo con i più innovativi strumenti tecnologici. Lui era lì, dove è sempre stato e neanche la collaborazione dell’FBI americana è riuscita a scovarlo in questi ultimi decenni. Ieri sera hanno rintracciato anche il suo covo abituale. Niente di speciale, una casa al centro di un paese senza fortificazioni né armi ma con arredi di pregio. Non hanno trovato una sola arma. Ieri, assieme al record di una delle latitanze più lunghe, è caduto anche un altro mito. Quello di un boss che viaggiava scortato da chissà quanti uomini armati sino ai denti, di un latitante ossessionato dal bisogno di non mostrare il suo volto fuori da mura protette, di un condannato e capo mafia impegnato ogni istante a non mettere il proprio naso oltre il perimetro del suo covo. Ci è stato raccontato e dipinto per anni come un uomo di cui nessuno conosceva nulla, neanche la voce o le fattezze fisiche. Era per tutti, inquirenti compresi, un’ombra che si pensava fosse fuggita in sud America, poi in alta Italia oppure negli Usa per curarsi. Invece era lì, nella fila di ammalati in attesa di passare l’accettazione, di sottoposti a un test Covid e intento a conversare abitualmente con chi gli faceva casualmente compagnia ignaro, chissà quanto alla fine, di trovarsi a fianco di un uomo tra i più ricercati del Pianeta. Lui era lì che attendeva il suo turno per essere curato, e non era che l’ennesima volta che aspettava. Anche in Sardegna è accaduto qualcosa di simile durante l’ultimo arresto di Graziano Mesina, l’ex primula rossa del Supramonte che per anni metà della popolazione ha odiato e l’altra metà mitizzato. Lo cercavano ovunque. Si disse e si scrisse che era fuggito in nord Africa o forse in Spagna. Si ipotizzò anche che fosse morto durante la latitanza e che il suo corpo giacesse in fondo a un lago. Invece, più semplicemente, viveva poco distante dal centro di Desulo ospite in casa di amici. Questo ci dimostra che le leggende dei latitanti rinchiusi in anfratti rocciosi impervi dove dormono alla diaccio e senza alcuna comodità umana sono, appunto, solo delle favole. Da tutto ciò, tuttavia, deriva un corollario che ci riguarda tutti. I latitanti per essere tali ai fini dell’ordinamento giudiziario hanno bisogno di tante coperture e dell’indifferenza generalizzata che ti porta a non denunciare pur sapendo perché o non te ne viene nulla o non ti importa. Quell’uomo era così sicuro di farla franca da uscire, restare per ora in fila, attendere in una sala d’aspetto assieme a tanti altri cittadini, farsi visitare da infermieri e dottori, rischiare di essere riconosciuto, persino scherzare con loro per passare il tempo. Tutto ciò avveniva solo a causa della sua sfrontatezza oppure derivava dalla sicurezza di non poter essere tradito? Ce lo dobbiamo chiedere perché è troppo facile oggi scendere per strada a Palermo o chissà in quale altro luogo ad applaudire o esprimere giubilo per l’arresto di un boss. È vincere facile stringere oggi le mani ai carabinieri che hanno effettuato l’arresto e twittare la propria gioia accodandosi a quella sempre puntuale, in occasioni simili, dei politici. Sì, anche su questo improvviso giubilo dei politici occorre fermarsi a riflettere. Ben vengano i giusti e doverosi apprezzamenti per le forze dell’ordine e la magistratura che hanno ottenuto e raggiunto questo risultato. Passino anche i proclami un po’ troppo retorici, tipici in questi casi di chi ha bisogno di intestarsi una vittoria che, in realtà, è frutto del duro lavoro di altri. Bisogna stare attenti, però, a parlare troppo di festa, come se si fosse parte di una tifoseria la cui squadra ha vinto un mondiale che tutti davano per perso o in cui si faceva il tifo per gli avversari. Oggi c’è da rendere omaggio a chi con il proprio sacrificio, anche personale, ha lavorato perché si assicurasse un latitante così pericoloso alla giustizia. C’è da dedicare questo risultato alle tante, troppe vittime innocenti di mafia, tra le quali tanti servitori indomiti dello Stato. C’è da congratularsi con chi è riuscito con zelo e dedizione a compiere quello che è il proprio dovere e che tanti non hanno voluto o potuto compiere in passato. Tuttavia, non c’è da festeggiare proprio nulla perché questo risultato si sarebbe dovuto incassare decenni fa. Solo così si sarebbero evitate altre morti, altri attentati, altra sofferenza, altro tempo perso. Solo così certi segreti sarebbero usciti nel momento più opportuno e si sarebbe fatta giustizia nei tempi dovuti. Questo risultato non può nascondere o occultare ciò che è stato il fallimento dello Stato, cittadini compresi, nel cercare per trenta anni di assicurare alle patrie galere un boss dalla siffatta carriera. L’arresto di questo pericoloso latitante, detto in altri termini, non deve essere per nessuno un punto di arrivo ma solo e soltanto un punto di partenza. Deve esserlo per la politica che troppo spesso scende a patti con chi non dovrebbe, ma soprattutto per tutti noi cittadini che dobbiamo iniziare a vincere sul campo quella battaglia di educazione al vivere civile, l’unica che ci può evitare di garantire ad un pericoloso malavitoso già condannato una latitanza di trent’anni. Solo allora potremo far tutti festa, oggi è presto, troppo.