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    “LE STRADE DELLA VITA”: PASSATO, PRESENTE, FUTURO

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    Mons. Giovanni Paolo Zedda, vescovo emerito della Diocesi di Iglesias

    Mons. Giovanni Paolo Zedda è nato ad Ingurtosu il giorno 8 settembre 1947, da Venanzio, impiegato in miniera, e da Ferdinanda Lampis, casalinga. È il primo di quattro figli; il secondo, Angelo Piero, morì alla tenera età di due anni; poi nacquero Piero Angelo e Maria Luisa.

    Cosa ricorda del periodo compreso tra la nascita e i dieci anni d’età? Quali sono i suoi ricordi di bambino?

    Sono nato ad Ingurtosu, una frazione mineraria del comune di Arbus. La mia famiglia abitava nelle case riservate agli impiegati, ora diroccate, sotto il palazzo della Direzione della Miniera. Dei primissimi anni ricordo ovviamente poco. Furono certo caratterizzati dalla serenità della vita familiare. Anche se non mancarono i periodi di difficoltà. Ho, ad esempio, qualche memoria, anche se flebile, dei giorni del furto agli uffici della Direzione della Miniera, dove mio babbo lavorava, e ricordo che per diverse settimane, alla sera, il silenzio era squarciato dalle sirene delle jeep dei carabinieri in perlustrazione nelle strade di Ingurtosu.

    Ricordo qualcosa della malattia di mio fratellino e, come un sogno, il giorno in cui egli morì: vedevo tutti piangere e non riuscivo a capirne il motivo. Proprio a ragione della sua malattia, più che con i miei genitori vissi quel periodo a casa dei nonni materni, ad Arbus.

    Poiché una delle sorelle di mia mamma, zia Elia, insegnava in prima elementare, mi prese nella sua classe. Avevo cinque anni appena compiuti e cominciai così con un anno di anticipo il mio percorso scolastico. Frequentai in quella classe, nel caseggiato de “sa fabbrica de is pipas” anche la seconda e la terza elementare.

    Poi tornai a casa ad Ingurtosu, dove frequentai la quarta e parte della quinta con la maestra Liduina. Babbo lavorava a Pozzo Gal e io ogni giorno, dopo il rientro da scuola, vivevo serenamente con lui e con mamma e i miei fratelli Piero e Maria Luisa. Ho anche qualche memoria dei vicini di casa: le famiglie Uccheddu (con qualcuno dei figli eravamo compagni di scuola), la famiglia Diana, le sorelle Peretti; ricordo anche qualcosa della Messa domenicale nella chiesa di S. Barbara e dei giorni di festa nel paese, che in quel periodo con i borghi vicini contava un migliaio di abitanti.

    Poi tornai ad Arbus e terminai le elementari col maestro Francesco Zurrida, che era sposato con un’altra sorella di mia mamma e era anche sindaco di Arbus. Tutta la mia famiglia si trasferì ad Arbus, inizialmente in casa d’affitto, finché i miei decisero di acquistare una vecchia casa che in alcuni anni riuscirono a ristrutturare interamente.

    Cosa ricorda della vita familiare?

    Vivevo in una famiglia molto unita, anche con tutti i parenti, sempre attenti e concordi nell’impartire una corretta educazione a noi ragazzi. Mio padre era ancora impegnato con responsabilità nel lavoro ad Ingurtosu ed era, in modo semplice ma attento, ben presente nella vita del paese; lo fu anche dopo essere andato in pensione nel 1957.

    Io cominciai subito a frequentare la parrocchia (in quegli anni le celebrazioni avvenivano soprattutto nella chiesa di San Lussorio) ed entrai a far parte del folto gruppo dei chierichetti. Era parroco don Antonangelo Spada, a cui poi succedette don Mario Meloni, e come gruppo eravamo seguiti da don Lorenzo Tuveri. Era presente l’Azione Cattolica con le sue attività formative e ricreative per i ragazzi e i giovani, che poi si svilupparono nell’Oratorio. Ricordo diversi sacerdoti che negli anni seguenti arrivarono in parrocchia: don Eliseo Corona come parroco, don Teodoro Marcias, don Costantino Locche, don Peppetto Spada, don Giuseppe Zurru, don Giuseppe Carta, e più tardi don Francesco Tuveri.

    Com’era il paese di Arbus dal punto di vista urbanistico quando a dieci anni vi fece rientro?

    Non ricordo molto. Le giornate passavano tra casa, scuola e parrocchia. Abitavamo in affitto in una casa delle sorelle Clelia ed Eleonora Melis, le sorelle di Tarcisio Melis, in via Manzoni, poco sopra il ruscello – oggi coperto da via Fratelli Bandiera – in cui le donne andavano ancora a lavare i panni. Certo, Arbus era più grande di Ingurtosu; le classi scolastiche erano più numerose della pluriclasse di Ingurtosu… Ma non ricordo tanto del mio ultimo anno alle elementari.

    Terminata la scuola elementare…

    Dopo le elementari o ci si iscriveva alla Scuola di Avviamento professionale, oppure, dopo un esame di ammissione, si poteva entrare nelle Scuole Medie, ma bisognava “emigrare”. Si poteva andare a Guspini, San Gavino, Villacidro, ma occorreva viaggiare, con tutte le difficoltà del caso.

    Io, nonostante avessi solo dieci anni, avevo già delle idee sul mio futuro e chiesi ai miei genitori di poter andare a Villacidro nel Seminario diocesano.

    Così cominciò una nuova fase della mia vita, lontano fisicamente dalla mia famiglia, in cui rientravo solo per le vacanze estive e in qualche altra rara occasione. Un sacrificio, certo, ma affrontato serenamente per mia scelta e con la comprensione e il sostegno della mia famiglia, nell’impegno di studio, di riflessione, di preghiera e di amicizia con i compagni di seminario ma anche con i coetanei di Arbus che continuavo ad incontrare durante l’estate.

    Nel seminario di Villacidro frequentai le scuole medie e il ginnasio, dando gli esami di licenza media e di ammissione al liceo come privatista.

    Iniziava il tempo di scelte più precise. Dei 31 ragazzi entrati in seminario a Villacidro per la prima media eravamo rimasti una decina al termine del ginnasio. Solo in tre decidemmo di proseguire verso il sacerdozio e nel 1962 fummo accolti nel seminario regionale a Cuglieri.

    Là frequentai il liceo e al termine del terzo anno diedi come privatista ad Oristano l’esame di maturità classica. Un’altra tappa.

    Decisi di andare avanti e frequentai a Cuglieri il corso di filosofia e i quattro anni di teologia. Terminai il corso di teologia con la licenza nel giugno del 1970, a 23 anni.

    C’erano altri arburesi nei seminari di Villacidro e Cuglieri quando frequentava lei?

    Sì, ce n’erano diversi. Alcuni non proseguirono, altri sono diventati sacerdoti.

    Una volta terminati gli studi di teologia, come prosegue il suo cammino?

    Gli anni ’70 erano anni di rinnovamento nella Chiesa, segnati dal Concilio Vaticano II, ma anche anni di crisi e di contestazione nella società italiana e mondiale, con inevitabili notevoli conseguenze anche sui giovani che si preparavano al sacerdozio, e il mio Vescovo, Mons. Antonio Tedde, decise di non ordinarmi subito. Mi lasciò un tempo di riflessione, che avrei potuto organizzare liberamente, in accordo con lui. Scelsi di andare alla Scuola sacerdotale del Movimento dei Focolari a Rocca di Papa, presso Roma. Fu un’esperienza profonda di spiritualità e di fraternità con seminaristi e giovani sacerdoti provenienti da varie parti del mondo. Nei primi mesi del 1971 presi a frequentare anche un corso di specializzazione in teologia pastorale presso l’Università Lateranense a Roma.  

    Rientrai in Sardegna a giugno. La mia disponibilità e il mio dialogo con il Vescovo procedevano abbastanza serenamente. A luglio Mons. Tedde mi ordinò diacono e dopo poco più di un mese decise che mi avrebbe ordinato presbitero il 28 agosto.

    L’ordinazione sacerdotale avvenne ad Arbus nella chiesa di san Sebastiano. Nella stessa celebrazione fu ordinato anche don Raimondo Virdis.

    Come primo incarico fui inviato subito come viceparroco a san Nicolò a Guspini, in collaborazione col parroco don Salvatore Piano e con altri due viceparroci, don Bruno Cirina e don Giampaolo Spada. Avevo qualche ora di insegnamento di religione nella scuola media e in parrocchia ero assistente in oratorio insieme a don Spada e impegnato nella catechesi ai ragazzi.

    Nell’estate del 1972, dopo aver trasferito don Piano da Guspini alla parrocchia di santa Chiara in San Gavino, Mons. Tedde trasferì anche me a santa Chiara. Vi rimasi viceparroco fino al 1983, insieme a don Raimondo Virdis. È stato il periodo più lungo come stabilità in parrocchia. Un periodo di grande intensità, soprattutto per l’impegno nella catechesi e in oratorio con i ragazzi e i giovani e in collaborazione con le Suore del Cottolengo nell’oratorio femminile. In ambito scolastico come insegnante di religione passai dalla scuola media al liceo scientifico. Poi iniziarono gli impegni a livello diocesano, prima con la Caritas, poi con l’Ufficio catechistico; più avanti mi fu affidato l’Ufficio di Pastorale familiare.

    Alla morte di Mons. Tedde arrivò in diocesi Mons. Paolo Gibertini. Fu lui nel 1983 ad inviarmi a Villacidro come rettore del seminario diocesano: un lavoro totalmente nuovo per me. Impegnato con una decina di ragazzi per quasi tutta la giornata (al mattino loro andavano a lezione nelle scuole statali e anch’io avevo le mie ore di insegnamento al liceo a San Gavino), facevo con i seminaristi e con alcuni sacerdoti vita di comunità e li accompagnavo nella formazione umana e spirituale e nello studio.

    Dopo tre anni il numero dei seminaristi si era talmente assottigliato che, d’accordo col Vescovo, decidemmo di chiudere il seminario. Restai nominalmente rettore, ma senza seminaristi. Si cominciò a tentare l’animazione vocazionale con gruppi di ragazzi delle parrocchie della diocesi in incontri periodici a fine settimana. Ma non ero disoccupato: oltre la scuola al liceo (qualche anno anche al corso serale per i lavoratori) scendevo da Villacidro a San Gavino per collaborare con don Fiorenzo Pau nella parrocchia di santa Chiara.

    Poi Mons. Gibertini fu trasferito a Reggio Emilia e dopo poco tempo fu nominato vescovo di Ales Mons. Antonino Orrù. Dopo alcuni mesi egli mi inviò parroco a Gonnosfanadiga a “Gonn‘e susu”, a santa Barbara, la parrocchia più antica, riaperta da qualche anno dopo l’accorpamento con la parrocchia del Sacro Cuore.

    Dopo essere stato nominato parroco per la prima volta, quali furono le prime impressioni? Soddisfazione… preoccupazione…

    Ho sempre cercato di affrontare la vita accettando le situazioni nuove man mano che si verificavano, con tutti i loro aspetti, positivi e negativi. Ricordavo a me stesso la frase del Vangelo: “ad ogni giorno basta la sua pena”. Da una parrocchia all’altra; da una responsabilità all’altra; dalla parrocchia al seminario e poi di nuovo alla parrocchia. Certo la responsabilità del parroco è diversa da quella del vice, ma per un prete è sempre preponderante l’attenzione per le persone e la testimonianza del Vangelo nelle situazioni concrete delle famiglie e della gente che vive nel territorio parrocchiale.

    La parrocchia di santa Barbara era la più piccola delle tre parrocchie di Gonnos, ma era molto vivace nelle attività di catechesi, di oratorio, di attenzione ai poveri e ai malati, e con un buon numero di capaci collaboratori giovani e adulti nei diversi ambiti. E d’estate non ci si fermava, anzi nel mese di luglio l’attività dell’oratorio diventava più intensa, perché si apriva ai ragazzi e ai giovani di tutt’e tre le parrocchie, di tutto il paese.

    Nell’ottobre del 1991, dopo 21 anni di presenza nella scuola, decisi di lasciare l’insegnamento al liceo, poiché avevo sperimentato la difficoltà di conciliare l’impegno scolastico con la presenza in parrocchia: sono uno degli ultimi “pensionati baby”! Restai così totalmente a servizio della parrocchia.

    Nel 1997 Mons. Orrù mi trasferì ad Arbus come parroco di san Sebastiano in sostituzione di don Battista Madau.

    Come si trovò nel gestire la parrocchia dei suoi compaesani?

    Manifestai le mie perplessità al Vescovo, facendo leva sulle parole di Gesù: “Nessuno è profeta in patria”! Egli mi rispose solo con un sorriso.

    In realtà, anche se ad Arbus abitavano mia mamma e mia sorella (babbo era morto nel 1978), in paese non conoscevo quasi nessuno a parte i parenti più stretti, e non esistevano conflitti di interessi con nessuno dei miei compaesani.

    Certo la situazione era totalmente nuova rispetto a Gonnosfanadiga. Non avevo viceparroci, solo la collaborazione di don Ettore, che però era impegnato a tempo pieno nella scuola media; solo dopo qualche anno arrivò don Luca Carrogu e poi don Roberto Lai. Anche a Gonnos ero stato solo, ma la parrocchia di san Sebastiano era ben più popolosa. Subito dovetti provvedere alla ristrutturazione della casa parrocchiale, cosa che il mio predecessore aveva già in programma. Gli spazi utili per la catechesi erano dislocati in locali lontani tra loro; anche l’oratorio per le attività dei ragazzi e dei giovani era distante dalla chiesa e da casa: occorreva tempo per spostarsi da un luogo all’altro.

    Portammo avanti le attività già presenti in parrocchia: le celebrazioni liturgiche, la catechesi ai ragazzi e agli adulti, l’attenzione ai malati e ai poveri, la formazione dei soci di alcune associazioni, l’oratorio.

    Dopo qualche anno si dovette affrontare una nuova difficoltà. Le Suore, che da tempo gestivano una scuola materna e un piccolo pensionato per anziani, a causa della diminuzione del numero di Religiose disponibili, avevano pensato di chiudere queste attività e di lasciare Arbus. Si prospettava un ulteriore problema anche per la parrocchia, poiché la presenza delle Religiose era importante – oltre che per la loro specifica testimonianza – anche per la formazione delle famiglie, per la vicinanza agli anziani soli, per l’animazione delle ragazze e delle giovani. Anche l’interessamento del nuovo Vescovo, Mons. Giovanni Dettori, non sortì gli effetti sperati. A giugno del 2004 le Suore partirono e la parrocchia perse una importante risorsa.

    A fine novembre 2005 Mons. Dettori mi chiese di spostarmi a San Gavino Monreale come parroco di santa Chiara. Fu una sorpresa, una cosa inaspettata. E il Vescovo mi chiedeva una disponibilità immediata. Così il 16 dicembre, il primo giorno della novena di Natale, facevo l’ingresso nella parrocchia di santa Chiara.

    Anche se conoscevo la realtà di quella parrocchia ed ero certo della disponibilità di molte persone che avevo conosciuto da ragazzi e che, ormai adulti, avrebbero collaborato attivamente, ero consapevole che non si sarebbe potuto vivere di nostalgie: i tempi erano cambiati e ci era richiesta una testimonianza rinnovata del Vangelo. C’erano anche nuove difficoltà logistiche: la casa parrocchiale aveva bisogno di manutenzione straordinaria e, in attesa della conclusione dei lavori, per alcuni mesi dovetti viaggiare quotidianamente da Arbus a San Gavino. Ma l’impegno pastorale continuava e la comunità parrocchiale manifestava buona volontà di rinnovarsi.

    Poi, gli ultimi giorni del febbraio 2007 arrivò inattesa una telefonata: il Nunzio Apostolico mi chiamava a Roma.

    La nomina a vescovo fu anch’essa un fatto inaspettato? Non ebbe alcun segnale in proposito nei mesi precedenti?

    Qualche labile segnale ci fu, ma non gli diedi alcuna importanza, poiché ritenevo una simile ipotesi molto distante dalla realtà.

    E invece l’8 marzo fu resa pubblica la mia elezione a vescovo di Iglesias. Il 13 maggio ad Arbus ricevetti la consacrazione episcopale e il 17 giugno iniziai ad Iglesias il mio ministero, che si sarebbe protratto per 15 anni.

    Una comunità, quella iglesiente, sicuramente caratterizzata dalla storia delle miniere e, immagino, con problematiche particolari…

    Sì, dovute soprattutto alla mentalità acquisita nel tempo, di organizzazione della vita sociale e anche familiare, con ancora molte pensioni di vedove di minatori che sostenevano l’economia familiare; con i giovani sempre più spinti alla emigrazione; con la difficoltà ad acquisire capacità imprenditoriali.

    La maggior parte delle miniere erano ormai chiuse, sia quelle di piombo sia quelle di carbone. Restava solo la Carbosulcis (NdR – La miniera di Monte Sinni, sita alle porte di Nuraxi Figus, frazione di Gonnesa, al 2016 era l’unica miniera di carbone ancora attiva in Italia. Nel 2019 ha cessato definitivamente l’attività estrattiva).

    Con la chiusura delle attività minerarie da diversi anni era iniziata nei dintorni di Portoscuso l’attività del polo industriale di Portovesme, soprattutto con la multinazionale statunitense “Alcoa” (NdR – L’azienda Alcoa venne avviata in Sardegna nel 1973. Fino al 2012 produceva annualmente 350 mila tonnellate di alluminio primario in pani e billette. Vantava 800 occupati in totale. Il costo sempre più alto delle materie prime e dell’energia e altre cause sono stati i maggiori fattori per i quali l’Alcoa iniziò la sua fase di declino), ma anche con la “Eurallumina” (NdR – L’azienda, controllata dalla russa Rusal, nasce per produrre ossido di alluminio, poi impiegato come prodotto intermedio da Alcoa nel processo di produzione dell’alluminio. Eurallumina ha chiuso i battenti nel 2009, lasciando 450 persone in cassa integrazione e, nonostante i continui annunci di riapertura, non ha ancora ripreso la produzione) e con la “Portovesme srl” (NdR – La Portovesme srl, azienda metallurgica fondata agli inizi degli anni ’30 e controllata dalla svizzera Glencore, garantisce più di 100 posti di lavoro e comprende anche la fonderia di San Gavino Monreale. Negli anni di massima produzione gli occupati sono stati circa 300. L’azienda annualmente produce molte migliaia di tonnellate di piombo, da cui si raffinano metalli preziosi che vengono scambiati anche sui mercati internazionali; nell’ultimo anno, soprattutto a causa del costo dell’energia, è stata anch’essa costretta a ricorrere alla cassa integrazione), più altre imprese minoriin tutto l’Iglesiente.

    Nel 2008/2009, i primi anni dal mio arrivo ad Iglesias, cominciò la grande crisi mondiale finanziaria ed occupazionale. Soprattutto a causa del crollo delle vendite e dell’aumento del costo dell’energia, tutte le industrie andarono in crisi; alcune chiusero in breve tempo.

    È stato sicuramente un periodo difficilissimo anche per la coesione sociale… Lei è stato vicino ai lavoratori per lungo tempo…

    Un periodo difficile, con nuovi problemi e povertà che si aggiungevano a quelli già presenti da tempo.

    C’era già un buon rapporto tra la Chiesa e i lavoratori, comprese le confederazioni sindacali e anche le imprese. I vescovi che mi hanno preceduto erano stati molto attenti ai problemi del mondo del lavoro, e i responsabili della pastorale sociale in diocesi sono stati costantemente presenti nei momenti più critici della evoluzione di quella crisi.

    Quando nel 2010 riuscimmo ad organizzare un grande momento di riflessione nella zona di Portoscuso coinvolgendo tutte le imprese locali e tutti i paesi della diocesi, molti avevano la speranza che la crisi si sarebbe potuta risolvere in breve tempo. Invece la difficoltà andava crescendo, con momenti alterni di speranza e di pessimismo, fino alla tentazione della rabbia e della disperazione, che per grazia di Dio non è sfociata in gravi disordini sociali: il mondo operaio ha saputo conservare l’unità e anche le autorità politiche locali hanno saputo conservare una solidarietà sostanziale nella lotta per il lavoro. La parola della Chiesa è stata di grande sostegno, con l’incoraggiamento di papa Benedetto all’Angelus durante le manifestazioni a Roma (marzo 2009) e di papa Francesco nella sua visita a Bonaria nel settembre 2013 e a Roma ad aprile del 2014. Anche la comunità diocesana è stata vicina agli operai e alle famiglie provate dalla crisi, con la preghiera e attraverso la presenza continua della Pastorale del lavoro e della Caritas.

    Attualmente la situazione resta ancora molto problematica, anche per gli effetti conseguenti alla pandemia e poi per la crisi economica originata dalla guerra in Ucraina.

    E ora che, come previsto dalle norme canoniche, al compimento dei 75 anni ho rassegnato le mie dimissioni ed esse sono state accettate dal Papa, il mio impegno a favore della difficile situazione sociale del territorio della diocesi di Iglesias e della Chiesa intera prosegue nella preghiera. E non è un impegno meno valido degli interventi pastorali svolti negli ultimi 15 anni: senza l’aiuto di Dio le iniziative della Chiesa restano inefficaci.

    Dopo 15 anni di forte impegno in qualità di vescovo, come vive il presente?

    Negli ultimi tempi ho avuto qualche difficoltà di salute che spero di superare con un supplemento in più di riposo rispetto al passato, ma restando anche disponibile a vantaggio della comunità cristiana: un vescovo emerito continua comunque ad essere vescovo!

    Il futuro?

    La mia disponibilità continuerà ad esserci, compatibilmente con le situazioni che il Signore mi darà da vivere e con gli impegni che la Chiesa mi dovesse chiedere.

    Come vede il futuro della società italiana e di quella sarda in particolare?

    Non esistono più problemi legati alle singole zone del mondo: siamo tutti connessi e interdipendenti, e questo vale anche per la soluzione delle difficoltà. Papa Francesco ci ha spesso ricordato – lo ha fatto anche nell’ultimo messaggio per la Giornata mondiale della pace – che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri e che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina”: nessuno può salvarsi da solo e occorre rimettere al centro la parola “insieme”.

    Talvolta le difficoltà che si presentano improvvise ci portano a chiuderci nella paura e nell’isolamento e ad impegnarci a risolvere solo i problemi individuali o di piccoli gruppi. È ancora difficile lavorare uniti cercando il bene di tutti, a partire dai più deboli. Occorre che tutti sappiamo aiutarci l’un l’altro a non perdere la speranza e a riscoprire la capacità di collaborare, sia a livello locale che internazionale. È anche l’impegno che la Chiesa sta chiedendo pressantemente ai cristiani nel “cammino sinodale”.

    Nel ringraziare il vescovo emerito della diocesi di Iglesias Mons. Giovanni Paolo Zedda per la sua disponibilità, gli auguriamo un futuro ricco di soddisfazioni.

    Angelo Concas

    Nelle foto:

    1. Mons. Giovanni Paolo Zedda (Primo giorno da vescovo della Diocesi diIglesias)
    2. Incontro con Papa Ratzinger (Benedetto Benedetto XVI)
    3. Incontro col Papa Bergoglio (Francesco)

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