Il nepotismo, ahinoi, è un male tipicamente italiano. Non dobbiamo essere ipocriti, esso fa parte del nostro Dna, da sempre. Non è un male nuovo, anche se attualmente sta ritornando prepotentemente alla ribalta con un aggravante in più, il silenzio generale di chi fino a poco tempo fa faceva della questione morale un caposaldo per l’intera politica nazionale. Non c’è settore della vita pubblica o privata in Italia che non ne sia tarlato. Lasciamo stare ciò che non è pubblico. Nelle società, compagnie e aziende private il nepotismo è più che giustificato, essenziale direi in un tessuto economico che si basa moltissimo sulle aziende a conduzione familiare, nella sua accezione più ampia. In questi ambiti non si può neanche parlare di nepotismo perché non esiste il favoreggiamento illecito o inopportuno in ciò che non appartiene alla sfera pubblica ma è legato esclusivamente alla libera iniziativa del singolo. Diverso il discorso quando si tratta di ciò che è strettamente correlato con l’amministrazione del bene comune. La politica, la pubblica amministrazione, la televisione di stato, persino la Chiesa devono fare i conti con questo antipatico problema. Non sempre il nepotismo è una negatività assoluta e a priori. Spesso ci sono parenti bravi, preparati, competenti e professionalmente idonei a svolgere i ruoli per cui vengono scelti o nominati. In alcuni casi la scelta fatta è addirittura il non plus ultra delle disponibilità sul mercato. Il punto, tuttavia, è un altro. È, infatti, soprattutto un problema di opportunità e di equità nella distribuzione delle occasioni. Davanti a ogni caso di nepotismo nel settore pubblico, o comunque in ogni settore che riguardi la gestione del bene comune, occorre appunto porsi la seguente semplice domanda: avrebbe quella persona ottenuto quel determinato lavoro, quel ruolo, quella mansione o, più semplicemente, quella occasione se non fosse stato il figlio, il nipote, la moglie o il marito, il cognato di qualcuno o qualcuna che ha un ruolo di rilievo? Prendiamo la politica. Ci sono in parlamento, nei consigli regionali, nei comuni e via dicendo tanti figli di, mogli di, nipoti di, cognati di. Ognuno di loro ha il sacrosanto diritto di impegnarsi in politica, di presentarsi agli elettori e di ricevere il loro consenso. Molto probabilmente sono tutti bravi e competenti per essere dove sono e svolgere quel ruolo. Tuttavia, avrebbero questa possibilità se non fossero parenti di chi gestisce gli organi di un partito o di chi sia, a sua volta, un rappresentante delle istituzioni? Il dilemma non è di poco conto, soprattutto quando i sistemi elettorali, come quello per l’elezione delle due camere, prevedono che siano i partiti a scegliere sia i candidati che i collegi blindati dove basta essere in lizza tra i primi per essere eletti. Non bisogna ogni volta correre ai ripari, come si fa sempre, sostenendo che comunque si candidano persone degne e preparate. Non può questo rimuovere il problema di fondo, ovvero l’equivalenza delle occasioni che spettano ad ogni cittadino. A parità di bravura, di competenza e di passione politica la moglie di un deputato, magari anche capocorrente di un partito, ha effettivamente la stessa identica possibilità di occasioni di un’insegnante, di una funzionaria pubblica, di una studentessa o di una massaia che non hanno parenti impegnati in politica? È o non è anche questa una questione di parità? Questo, però, non riguarda solo la politica, ma anche il mondo dello spettacolo che tanto adoriamo ma che ci propina soluzioni del tutto equivalenti senza che suscitino clamore. Prendiamo mamma Rai. Essa vive soprattutto grazie al canone che ognuno di noi deve pagare in automatico tramite la bolletta della corrente elettrica per il solo fatto di possedere un televisore. Dobbiamo pagare senza poter dire nulla e a prescindere dal nostro gradimento. Quei soldi, così raccolti, vengono usati per pagare le trasmissioni tv, realizzare spettacoli e fiction, garantire informazione pubblica e via dicendo. Tralasciamo il fatto che mai nessuno abbia finora pensato di mandarci a casa, come contribuenti, quantomeno un elenco di spese da cui desumere come e dove vengono usati i nostri soldi. Ci raccontano, infatti, che pur essendo gestita con i soldi pubblici la Rai si avvale di artisti che non sono obbligati a dichiarare quanto guadagnano e quindi per privacy non ci viene detto nulla sui loro cache e compensi. Non sappiamo nulla neanche di quanto ci costa una ospitata vip in un talk show, nulla. Ancor meno ci raccontano se quando viene presentato un libro in tv durante una trasmissione l’autore dello stesso venga anche retribuito per farlo unendo, così, l’utile al dilettevole. Sarebbe interessante saperlo. A noi contribuenti deve bastare sapere solo quanto ci viene addebitato mensilmente in bolletta per il canone e via. Così accade sempre più spesso che qualche notissimo presentatore Tv possa scritturare per ogni sua trasmissione, o quasi, la moglie o la figlia senza che nessuno possa o debba permettersi di gridare al nepotismo. Se lo facesse un politico o un amministratore pubblico saremmo tutti lì a storcere perlomeno il naso, ma se accade in tv tutto passa in cavalleria come se il fatto non solo fosse meno grave ma addirittura normale. Mentre per la politica un fatto simile è catalogabile come puro e ignobile nepotismo, almeno nell’immaginario collettivo e non certo per le norme giuridiche, per il mondo dello spettacolo che usa fondi pubblici non lo è affatto. A ben vedere, però, la domanda resta sempre la stessa. Se quella persona non fosse moglie o figlia di un artista già scritturato, e con voce in capitolo sulle scelte da fare, avrebbe le stesse occasioni? È questo l’esempio che si vuol dare ai giovani di come devono continuare ad andare avanti le cose nel nostro Paese? Il realtà il problema vero passa, infatti, per la nostra educazione. Più veniamo abituati a non inorridire davanti a questi fenomeni e più essi ci scivolano addosso perché oramai educati a sopportarli, quasi con rassegnazione. Solleviamo spallucce e ci diciamo tra di noi “è così, che possiamo farci, funziona così”. Non lamentiamoci quindi quando la politica si comporta sempre più come il mondo dello spettacolo, siamo noi che abbiamo sdoganato tutto e continuiamo a farlo, un po’ perché disattenti e un po’ perché “mal comune mezzo gaudio”.