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A Cagliari un esperimento tra paura e solidarietà: il test sociale di Claudia Murru

(foto da @Claudia Murru-facebook)

Claudia Murru ha recentemente condotto un esperimento sociale che richiama la figura della “Signora dei piccioni” del film Mamma ho perso l’aereo, ma con un’intenzione ben precisa: osservare le reazioni delle persone nel contesto urbano moderno. Ispirata dal celebre personaggio, Murru ha indossato un costume da clochard, accompagnato da finti piccioni, e si è immersa nelle affollate strade cittadine, nella giornata di sabato prima di Natale. La sua esperienza ha portato a riflessioni profonde e preoccupanti sulla nostra società, spesso segnata da distacco, giudizio e paura.

«Ho voluto capire come le persone reagiscono di fronte a qualcosa di “diverso”, di insolito. Proprio come nel film, ho voluto vestire i panni di una figura che rappresenta l’emarginazione e l’isolamento», racconta Murru. L’esperimento ha avuto luogo in una delle zone più affollate della città, ma la reazione delle persone è stata tutt’altro che accogliente. La maggior parte delle reazioni, infatti, è stata caratterizzata dall’indifferenza o dal giudizio negativo, evidenziando una difficoltà generale nel lasciarsi andare alla leggerezza e all’umorismo. «Sguardi disapprovanti, che non riuscivano ad ammorbidirsi nemmeno con un sorriso o un gesto di saluto, suggeriscono una barriera emotiva che impedisce la connessione con gli altri, anche attraverso una semplice risata», afferma l’esperimentatrice.

Il pregiudizio è emerso come una costante, con molte persone che, pur non conoscendo la persona che stava loro di fronte, hanno giudicato negativamente il comportamento ritenuto “non convenzionale”, seppur innocuo. Tuttavia, un altro aspetto che ha colpito Murru è stata la reazione di paura, in particolare verso i finti piccioni. «Alcuni avevano paura dei piccioni, che erano ovviamente finti. Ma la cosa che più mi ha impressionato è stata la paura in generale verso ciò che è percepito come diverso o strano», sottolinea. Un’analogia che Murru non ha potuto ignorare è quella con lo stigma e l’emarginazione delle persone con demenza, che spesso vivono esperienze simili di paura e rifiuto da parte della società.

Tuttavia, in questo scenario di indifferenza, giudizio e paura, ci sono stati anche degli sprazzi di speranza. Gli unici che si sono avvicinati con curiosità, scambiando qualche parola simpatica o mostrando un sorriso, sono stati gli anziani e i senzatetto. «Mi ha colpito molto il fatto che proprio queste categorie sociali, spesso marginalizzate, si siano rivelate più aperte alla connessione umana», racconta Murru. Gli anziani, forse perché conservano ancora il dono dello stupore, sembrano avere memoria di interazioni più dirette e meno mediate dalla tecnologia. Anche i senzatetto, che vivono ai margini della società, hanno mostrato una maggiore empatia e un desiderio di socializzazione.

La ricerca ha anche incluso i bambini, ma sebbene molti si siano mostrati curiosi, solo uno si è avvicinato ai piccioni. «I bambini sono il futuro, ma la società attuale sembra farli crescere troppo velocemente, insegnando loro a essere cauti e a non avvicinarsi troppo agli sconosciuti», riflette Murru.

Il suo esperimento ha messo in luce un paradosso preoccupante: mentre i social network sembrano favorire una connessione apparente tra le persone, la vera interazione faccia a faccia è sempre più difficile. «I social media ci danno un’illusione di vicinanza, ma non offrono la profondità e l’autenticità delle interazioni reali», spiega. Murru sottolinea l’importanza di ricostruire il senso di comunità e di favorire l’interazione tra le persone, soprattutto con le categorie più vulnerabili. «La solitudine e l’isolamento sono emergenze sociali che colpiscono tutti noi. Le persone sembrano anestetizzate, incapaci di relazionarsi anche in situazioni leggere e divertenti», afferma.

Concludendo il suo esperimento, Murru riflette sulla necessità di promuovere iniziative che stimolino la socializzazione e il recupero del contatto umano. «Attività di gruppo, eventi di comunità e spazi di aggregazione sono essenziali per ricostruire il tessuto sociale e ridare luce agli sguardi spenti che ho incontrato», conclude. Sebbene l’esperimento abbia rivelato molte ombre della nostra società, Murru porta con sé una speranza: «Tornando a casa, sotto una doccia bollente mi sono lavata via il trucco, il parrucco e il pregiudizio, ma mi è rimasto il desiderio di contagiare sorrisi agli sconosciuti». Un piccolo, ma significativo passo verso una società più empatica e connessa.

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