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    Le dimissioni della premier neozelandese, un’occasione per riflettere

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    La premier neozelandese Jacinda Ardern ha deciso di dimettersi. La notizia non è di quelle da tenere i telespettatori incollati alla tv o costringerli a lasciare ogni cosa per approfondire. Anzi, ai più verrà in mente subito un classico e sbrigativo “e chi se ne frega”. Giusto, la notizia interessa direttamente solo i cittadini e gli elettori della Nuova Zelanda, molto meno il resto del Mondo. Tuttavia, c’è qualcosa in questa notizia che dovrebbe far riflettere, soprattutto noi italiani. Jacinda Ardern ha annunciato ieri in diretta tv che si dimetterà tra due settimane, esattamente il 7 febbraio prossimo. Non ha deciso di farlo perché travolta da uno scandalo o perché scelta per qualche altro pregiato incarico istituzionale. No, si dimette soltanto perché non ha più le energie personali per continuare a servire il suo paese come esso merita. Detto in altri termini, è affaticata di fare il premier della sua nazione e sente di non esserne più all’altezza. Per lei è meglio smettere e passare di mano. Per noi italiani è difficile concepirlo, figuriamoci comprenderlo. Anche se proprio dieci anni fa al centro di Roma un Papa della Chiesa cattolica decise di fare lo stesso, noi italiani facciamo fatica a comprendere le ragioni personali di chi si dimette da un’alta carica asserendo di farlo per mancanza di energie fisiche, e ogni volta cerchiamo un complotto che giustifichi ciò che ci sembra assurdo e strano. Non siamo abituati come cittadini a questo tipo di scelte da parte di chi ci amministra perché ci hanno e ci siamo colpevolmente abituati a credere che la poltrona è per sempre, figuriamoci quelle più in alto nella piramide del potere. La premier neozelandese ha soli 42 anni e ricopre ruoli istituzionali da neanche 6 anni. Il suo mandato, infatti, come primo ministro del suo paese è iniziato il 26 ottobre 2017, ovvero l’altro ieri. Eppure, si dimette e fa un passo indietro. Ha anche confessato ai suoi concittadini che tra le cose che hanno esaurito maggiormente la sua forza c’è stata l’emergenza Covid che ha dovuto affrontare in una nazione che si è letteralmente isolata dal resto mondo per più di un anno. C’è chi lo chiamerà fallimento, chi fuga dalle responsabilità, chi la presa d’atto di una inadeguatezza al ruolo ricoperto e a ciò che comporta svolgerlo. Potrà essere anche così e forse c’è del vero anche in chi sospetta che queste dimissioni arrivano solo perché i sondaggi elettorali danno la popolarità e il consenso della premier e del suo partito in caduta libera. Tutto può essere, resta comunque la portata di un gesto che da noi è tanto raro da essere introvabile. La storia, certo, ci racconta di uomini politici che si sono dimessi anche da noi, ma mai perché erano stanchi o avevano esaurito le energie. In Italia ci si dimette dagli incarichi politici o perché travolti così tanto da uno scandalo da non poter più restare o per dispetto, mai per stanchezza. Quasi sempre, poi, ci si dimette da qualcosa sapendo di avere un paracadute di riserva e quindi di poter continuare ad essere “qualcuno” da qualche altra parte. Da noi i politici non sono mai stanchi o con le batterie scariche, e quando si dimettono lo fanno sempre accusando qualcun altro della loro scelta. A volte è colpa del risultato elettorale perché i cittadini non sanno votare, altre della magistratura, altre ancora dei complotti internazionali o dei tradimenti all’interno del proprio partito. Nessuno da noi si dimette perché è semplicemente stanco di svolgere un ruolo di cotanta responsabilità da sfiancare chiunque, anzi si lotta fino a fine per rimanere in sella. A ben vedere c’è una spiegazione a tutto questo, anche se sottile. Da noi la politica non è vista come missione ma come lavoro, come professione, come carriera da tenersi stretti in ogni modo. Questo modo di concepire il proprio ruolo non è sentito e vissuto solo dai politici in prima persona ma dagli stessi cittadini che disertano per metà dell’elettorato attivo le urne perché ormai certi che la politica sia solo una girandola di sedie tra gli stessi leader di professione che permettono un cambio generazionale solo dopo trenta o quaranta anni di permanenza nel panorama politico. Se, infatti, si concepisce la politica come missione e impegno verso il bene comune allora è lecito porsi domande sulla propria stanchezza, abilità, capacità, utilità per il paese. Se, invece, la politica diventa solo un modo per far carriera, per avere uno stipendio sicuro, per ottenere entrature o altri vantaggi allora si vedrà il proprio impegno come necessario, indispensabile e così prezioso da doverlo tenere stretto a ogni costo. Accade così anche nel mondo del lavoro. Pensate ad un medico. Se egli vede il suo lavoro solo come una fonte di un buon reddito sicuro allora si terrà stretto quell’impiego anche se non avrà più voglia di aggiornarsi o di assistere tutti i suoi pazienti come nei primi anni della professione. Se invece ritiene una missione il suo curare gli altri potrà anche decidere di abbandonare un dato posto di lavoro se vuole migliorarsi o essere più utile. In politica tutto ciò è amplificato perché essa ha, o dovrebbe avere, per scopo esclusivamente il bene dei cittadini e il futuro della nazione. Non si tratta di discutere qui sulle competenze o su quanti mandati dovrebbero essere consentiti a chi viene eletto come nostro rappresentante. Non è una questione di divieti. Metterla sempre su questo piano non solo è riduttivo ma fuorviante, anche se sintomatico della realtà sociale del paese. Qualcuno ci ha provato negli anni addietro ma fallendo miseramente perché non era altro che un’idea populista data in pasto ai cittadini con un oramai cronico mal di pancia col solo scopo di guadagnare consenso. Non si tratta di fare tabula rasa delle competenze personali per poi introdurre limiti all’impegno politico ex iure. È, invece, una questione di educazione civile del paese e dei suoi cittadini, tra i quali in democrazia si scelgono i rappresentanti. La politica non deve essere più vista come una delega che il cittadino dà a chi poi ne trae una possibilità di carriera all’interno delle istituzioni o delle pubbliche amministrazioni.  L’elettorato passivo non deve essere concepito come una buona occasione per trovare lavoro, arrivare alla pensione o al vitalizio, garantirsi percorsi privilegiati che possano poi agevolare carriere personali e procacciarsi occasioni impossibili ai comuni mortali che diventano così privilegi secondari ma ambiti. Ciò non significa affatto che una persona preparata, professionalmente e moralmente ineccepibile e con passione non possa ricoprire ruoli anche per venti o trent’anni, l’importante è che sia utile al paese e abbia sempre quell’energia che serve per occuparsi dei problemi degli altri e del futuro della nazione.  Se un politico, sia esso un sindaco o un ministro, è stanco di esserlo non è né un reato o tantomeno una vergogna farsi da parte, anzi sarebbe un ulteriore servizio ai cittadini cedere il passo se non più motivati a proseguire. Solo se si concepisce quel ruolo come una fonte di reddito o di interesse in qualche modo monetizzabile allora si ragionerà del proprio ruolo e, soprattutto, della propria forza nel svolgerlo come ostaggi.   

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