In tempo di campagna elettorale tutto fa brodo. Si parla, si discute, ma soprattutto si promette, tanto e troppo. Ogni partito o movimento ha le sue ricette più o meno alettanti. Ciò che fino a pochi giorni prima non poteva essere fatto diventa ora perfettamente fattibile, anzi necessario. Flat tax e pace sociale, dote ai diciottenni e tassa sulla successione, più sicurezza nelle città e meno mascherine, più diritti a chi non ne ha e più libertà a chi ne ha poche, cittadinanza con lo ius scholae e frontiere sigillate, blocchi navali e immigrazione, cannabis libera, pensioni a quote variabili, una mensilità in più per tutti e un milione di alberi, presidenzialismo e modifica della legge elettorale, e così via dicendo. Ce n’è per tutti i gusti, quasi che ciò che ci viene proposto sia un ipotetico pranzo self service di un sublime ristorante dove poter scegliere ciò che ci aggrada di più con l’illusione che poi il conto finale di ciò che ci causerà una bela indigestione lo pagheranno gli altri. È come se la politica sia diventata un grande ipermercato dove l’elettore, ovvero il consumatore finale, trova negli scaffali tanti bei prodotti scontati accompagnati da ben congegnati slogan. Una volta riempito il carrello, di promesse naturalmente, si passa alla cassa per pagare. Non si usano i soldi però, la moneta di scambio è la nostra fiducia e il nostro futuro. Una volta chiuso il magazzino, poi, si tirano le somme di quelli che sono stati i prodotti più venduti e si assegnano i premi ai migliori venditori e imbonitori di professione. Pensateci bene, non è forse così? Per ogni argomento viene coniato uno slogan come se invece che di politica vera si tratti di commercializzare un prodotto. Ognuno cerca di impacchettare e infiocchettare
al meglio la merce di cui dispone in magazzino, sperando di poterla vendere tutta, specialmente quella in giacenza da tempo. Davanti ai banconi viene messo il prodotto più fresco, quello più alettante subito dopo quello più datato. C’è però un tema, uno solo, di cui nessuno parla in questa campagna elettorale sotto l’ombrellone: le morti bianche. Di quei lavoratori che escono di casa per portare il pane quotidiano ma non vi fanno più ritorno non si parla mai. Ad ogni persona che muore sul posto di lavoro si deve registrare una levata di scudi generale con i soliti messaggi di cordoglio sempre uguali e sempre più irricevibili da chi deve svolgere quel compito di rappresentanza proprio della politica. Non c’è posto nel dibattito politico elettorale per chi muore mentre lavora. È un argomento che non interessa, né a destra, né a sinistra, né al centro. Parlare di morti bianche e di incidenti sul lavoro non porta consenso, anzi. Meglio tacere su quelle centinaia di persone, uomini e donne che hanno famiglia, che ogni anno perdono la vita per esercitare il loro sacrosanto diritto al lavoro. Sì, proprio così. Un diritto sancito da quella stessa Costituzione che si usa in modo reciproco solo per demonizzare l’avversario di turno ma che nessuno tira in ballo quando si tratta di salvare e proteggere le vite di chi semplicemente lavora per poter vivere e, cosa non meno importante, per far progredire questo Paese. Le morti bianche sono una vergogna e le vergogne, si sa, bisogna nasconderle per bene come si fa con la polvere sotto i tappeti. Ad ogni caduto sul lavoro inizia il solito spettacolo fatto di proteste, sdegno, rammarico e indignazione. Tutti gridano “sia fatta giustizia” e “mai più”. Poi, tutto tace. Neanche la magistratura sembra in grado di svolgere il suo ruolo con indagini che durano anni e prescrizioni che salvano tutto. Sembra quasi che alle morti bianche ci si debba abituare, come se fossero esse stesse un dazio da pagare, un prezzo necessario e non evitabile. Alla fine, tutta la responsabilità, o quasi, viene addossata sulle vittime che non possono più difendersi e la roulette russa ricomincia da capo. Prima o poi toccherà ad un latro e così via all’infinito tra ipocrisie e promesse mai mantenute. Non ce ne rendiamo neanche conto ma gli incidenti sul lavoro sono sempre più un costo di produzione che bisogna sopportare e
che fa inorridire solo giusto il tempo dei funerali. Panta rei, tutto scorre. Lo sdegno e la rabbia svaniscono, resta solo il dolore sordo e lancinante degli affetti più cari di chi non c’è più, di chi non ha potuto salutare il proprio caro per l’ultima volta e non può cancellare dalla mente quel momento, di chi si sveglia la notte credendo di poter ancora vedere il proprio padre, madre, figlio o fratello entrare per la porta di casa dopo il turno di lavoro. Sono loro a pagare sempre il prezzo maggiore e in solitudine, con l’aggiunta dello schiaffo gratuito di una giustizia che latita tra ritardi, perizie, trucchi legali e necessità di non creare troppi problemi a chi deve produrre sempre a meno costi. Ciò che fa male è l’indifferenza verso queste morti che sempre più spesso rappresentano il costo da pagare in una società che non ha più rispetto per la dignità umana. Nessuno parla in queste settimane di questo. Non c’è posto nei programmi dei partiti per questa vergogna che produce ogni giorno vedove e orfani. Eppure, si tratta di noi, perché la vita di chi lavora è anche la nostra e di chi ci sta accanto.