Come noto nei giorni scorsi Michela di Biase, quarantunenne consigliera regionale Pd del Lazio in pectore per essere candidata alle prossime elezioni politiche in un collegio sicuro, ha definito maschilista e misogino chi, anche e soprattutto nei giornali, parla di lei solo come la moglie di Dario Franceschini senza dare conto delle sue capacità, professionalità, esperienze e passione politica. Le sue dichiarazioni hanno destato scalpore e riportato alla ribalta in questa strana calda estate di campagna elettorale il problema della presenza femminile in politica e, anche, quello del presunto “nepotismo” all’interno dei partiti. Problema, ahinoi, che qualcuno aveva promesso, invano, di risolvere aprendo il parlamento come una scatola di tonno. Bisogna chiarire subito una cosa, la di Biase ha ragione. Essere sempre etichettati come “moglie di” o “Lady di” è svilente oltre che antipatico e sicuramente misogino da parte di tanti che lo fanno con quella precisa intenzione. La partecipazione femminile in politica va incentivata, favorita e ampliata. Non in termini risarcitori o riparatori verso chi per decenni ne è stato ignobilmente escluso ma più semplicemente perché è utile al Paese e doveroso per equità. A nessuno dovrebbe mai essere impedito di far politica, mai. Questo vale per le donne, ma anche in tanti altri casi. Non è, infatti, giusto neanche che oggi la politica pretenda di annoverare tra i suoi ranghi solo giovani trentenni mentre la gran parte della popolazione italiana ha di gran lunga superato i 60 anni di età. La politica deve essere per tutti perché gli stereotipi sono appunto tali, sia che riguardano le donne che i vecchi o altre categorie di persone. Ciò che dovrebbe importare realmente è, infatti, la preparazione, il merito, l’esperienza e la vera passione di chi intende proporsi per fare politica, sia essa quella che si svolge in un piccolo consiglio comunale che nei banchi del parlamento a Roma o a Bruxelles. L’Italia ha bisogno di questo, non di scalda posti o di fedeli nominati. L’idea che solo gli uomini, i giovani under trentacinque, i laureati o chissà cos’altro possano essere degni di far politica oggi, come altri lo erano ieri, non è solo sbagliato ma anche perverso per il bene di questa nazione. Ogni categoria di persona umana deve essere rappresentata perché quello è il primo vero ruolo della politica, rappresentare il Paese e la sua realtà nelle aule dove si decide il destino della nazione e si propongono soluzioni ai problemi di tutti. Ecco perché l’onorevole di Biase ha perfettamente ragione. Se lei ha, come ha dimostrato e come recita il suo curriculum, passione per la politica, esperienze da far valere, competenze da mettere in gioco per il bene dei cittadini deve avere la possibilità di candidarsi e di fare politica a prescindere da chi abbia sposato, da chi frequenti o da chissà che altro legame di parentela o amicizia possa avere. Questo deve valere per tutti. Così, però, non è affatto nella realtà e qui casca l’asino per la politica italiana tanto ipocrita quanto bugiarda. Oggi in Italia le candidature per i collegi parlamentari vengono decise d’ufficio dai segretari dei partiti, dalle loro segreterie, dai capicorrente. È affar loro, solo loro. Solo pochi uomini hanno diritto di scegliere, gli elettori solo quello di avallare decisioni altrui ponendo un semplice segno di matita come se fossero degli analfabeti cronici. Ciò che ci deve attrarre è il simbolo, i suoi colori sgargianti, le belle altisonanti parole messe in evidenza dentro quel cerchio, il nome a caratteri cubitali del leader che oggi diventa front runner o front man. Poi, chi realmente stiamo votando perché occupi a nome nostro per 5 anni un comodissimo scranno in parlamento non ci deve interessare. Qui sta l’errore madornale che poi porta tutti noi, semplici votanti, a non avere più fiducia nella politica e a pensare male delle candidature che ci vengono propinate, imposte, calate dall’alto. Non è il cittadino che sceglie ma i “capi” dei partiti, per lo più tutti uomini. Leader impegnati prima di ogni altra cosa a far tornare il conto di caselle da occupare e di seggi sicuri da assegnare che possano mantenere equilibri politici all’interno dei partiti che guidano o comandano. Nel farlo questi uomini sono soggetti a tanti condizionamenti interni ed esterni, nonché a vere e proprie fragilità o semplicissime simpatie personali. Da qui nascono i sospetti e le insinuazioni che portano, o semplicemente favoriscono, troppo facili conclusioni. Se, ad esempio, i collegi elettorali dati per sicuri vengono assegnati da un segretario di partito, per sua natura obbligato a dover tener conto del parere di tanti capi corrente da cui dipenderà il suo destino post-elettorale, è poi normale che il sospetto nasca se in uno di quei dati collegi blindati viene effettivamente candidata la moglie o un parente stretto di uno di quei capi corrente, magari il più influente. Tutto questo a prescindere dalle competenze o dal merito posseduto da chi è stato effettivamente nominato. Sì, proprio così, nominato. Perché oggi la politica è un insieme di nominati e non di uomini e donne scelti dal popolo che esercita il suo sacrosanto diritto di voto. L’elettore è chiamato solo a porre una X su un simbolo come se si trattasse del televoto per un reality show. Ciò che poi deriverà da quel segno sulla scheda elettorale, infatti, è solo il comporsi di un disegno che altri hanno già abbozzato a proprio piacimento in qualche stanza del potere a Roma. Inutile, peraltro, cercare rifugio e alibi in una legge elettorale fatta tanto male da essere ritenuta da tutti una indecenza. Lo è perché è la politica stessa che ha partorito quella legge e, nonostante se ne decanti ogni giorno la più completa negatività, non ha trovato in cinque anni il tempo per cambiarla. Detto in altri termini, se si vuole veramente evitare il sospetto, l’insinuazione e arginare gli odiosi fenomeni di misoginia e nepotismo in politica occorre per prima cosa rivedere il meccanismo di scelta e reintrodurre le preferenze. Chi ha competenza, professionalità, voglia e passione di far politica deve potersi proporre e gli elettori devono avere la responsabilità di scegliere ciò che ritengono il meglio per loro e per il Paese. Forse non sarà un sistema, quello delle preferenze, scevro da condizionamenti o influenze (in Italia nulla lo è fino in fondo); tuttavia, resta il migliore nel rapporto tra cittadini e politica. Ai partiti deve restare il compito di individuare i programmi, di fare sintesi e quello di proporre le persone migliori nelle liste da sottoporre al giudizio dei cittadini senza blindature e scelte autoritarie spesso frutto di baratti e di accordi tra pochi. La rappresentanza deve essere diretta, non può essere mediata da pochi e circoscritta alla solo scelta di un simbolo a cui sono, peraltro, collegati candidati di cui non si condivide il pensiero e che spesso non si conosce neanche perché catapultati da altri territori lontani e in collegi ora divenuti enormi per via dell’ultima riforma costituzionale. Queste alchimie politiche elettorali servono solo ad allontanare la gente dalla politica e a perpetuare nei cittadini la sfiducia verso un sistema che si autogestisce. In quest’ottica la partecipazione popolare si limita a assurgere al ruolo di tifo da stadio, niente più. Ritornando al caso concreto, con le preferenze sarebbero i cittadini del Lazio a scegliere con il proprio voto la candidata di Biase in base alle sue competenze, capacità e passione politica. Solo allora la sua legittimazione popolare sarebbe tale che nessuno, neanche il più idiota tra gli idioti, potrebbe pensare male di quella candidatura o continuare a dire da perfetto misogino “vabbè, ma quella è la moglie di…”. Non credete?